Friday, 26 October 2012

A Bologna durante la Festa Internazionale della Storia, si è parlato con la rivista Diacronie di storia digitale nell'era dell'accesso pubblico

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Da sinistra a destra, Deborah Paci, Tommaso Detti, Ilaria Porciani, Elisa Grandi e Serge Noiret 
(Fotografia Redazione Diacronie circolata in Twitter)
Lunedì 22 ottobre 2012, sono stato invitato a presentare con Tommaso Detti, il numero 10 della bella rivista online Diacronie, prodotta grazie al lavoro accurato di un gruppo di giovani ricercatori italiani ed europei che intendono diventare protagonisti delle discussioni storiografiche odierne in italia e in Europa. Per entrare nell'arena storiografica essi propongono una nuova rivista on-line in accesso libero, auto-prodotta e voluta con tenacia e grande entusiasmo e inoltre appoggiata su notevoli capacità tecniche e grafiche. Insomma una nuova rivista arrivata al suo decimo numero e prodotta con cura. 
IX Edizione della Festa Internazionale della Storia
La riunione beneficiava dell'ospitalità del Collegio Superiore dell’ Università di Bologna in collaborazione con il Centro Interuniversitario di Storia Culturale dell'Università di Padova e si svolgeva nell’ambito di un evento di Storia Pubblica o di Public History, la IX Edizione della Festa Internazionale della Storia a Bologna dal 20 al 28 ottobre 2012. Proprio la Festa della Storia, ospitava l’incontro dal titolo «Diacronie» La storia nell’era dell’accesso. Impiego delle tecnologie digitali nelle discipline storiche, dal nome dell'ultimo fascicolo della rivista stessa.
http://www.studistorici.com
La discussione partiva dalla seguente proposta scientifica: Negli ultimi anni si sono moltiplicate le riflessioni sui mutamenti prodotti dall’avvento del digitale nel mestiere di storico; accanto a queste, sono cresciuti numericamente i contributi relativi alle “Digital humanities”, cioè all’”umanesimo digitale”. Nello specifico, il termine “Digital History” è correntemente utilizzato per definire l’impiego di strumenti informatici applicati alla ricerca storica, dall’analisi delle fonti alla diffusione dei risultati; con questa etichetta sono stati creati insegnamenti universitari, sorti principalmente negli Stati Uniti. L’espressione “Digital History” non è nuova, ma le sue applicazioni e i suoi effetti nel mestiere di storico sono ancora da valutare. Come hanno ricordato recentemente Nicolas Delalande e Julien Vincent,«i discorsi sviluppati su internet e le relative conseguenze sull’elaborazione del sapere storico oscillano, generalmente, tra l’entusiasmo, l’inquietudine e il disinteresse»; quest’ultima posizione viene considerata dai due storici come «la più frequente» e probabilmente non «la meno spiacevole». Diacronie egli ospiti invitati all’incontro vogliono contribuire ad una presa di coscienza delle trasformazioni prodotte dal digitale sul quotidiano lavoro di storici.  
Presentavano Elisa Grandi (Université Paris VII-Denis Diderot; Università di Bologna) e Deborah Paci (Università di Padova; Université de Nice Sophia-Antipolis). Coordinava la serata Ilaria Porciani (Università di Bologna) e ne discutevo insieme a Tommaso Detti (Università di Siena), uno dei pionieri in Italia nella riflessione dedicata ad internet e all'uso del computer nel mestiere dello storico. Deborah Paci e Elisa Grandi erano le due curatrici che, in assenza di Emilien Ruiz trattenuto a Parigi, introducevano la rivista, le sue rubriche, i suoi scopi scientifici e, infine, il fascicolo consacrato all'accesso alla conoscenza e ai nuovi metodi dello storico nell'era digitale. Un filmato dei dibattiti sarà disponibile sul sito della rivista.  

Diacronie è soprattutto storia digitale, o meglio,come suggerisce Rolando Minuti in un recente saggio sulle riviste storiche «on-line» di storiografia digitale, Diacronie, mostra attraverso il web ed i suoi strumenti accessibili a tutti, la voglia di protagonismo delle giovani generazioni. Quelle generazioni aggiungo io, che sembrano ormai emarginate dall’università italiana e che, pertanto, cercano il dialogo a livello internazionale e pubblicano anche in inglese e in altre lingue. L’iniziativa di Diacronie come si legge nel Progetto editoriale della rivista, intende dedicarsi «all’esplorazione delle possibilità che il web offre alla ricerca storica soprattutto per quanto riguarda la legittimazione di studi, materiali e fonti che non sempre ottengono pieno riconoscimento attraverso i circuiti di diffusione più tradizionali». E dunque, l'ambiente digitale con le sue nuove fonti e le sue nuove pratiche, era certamente uno dei più consoni e funzionale a questo progetto editoriale. Minuti fa esplicito riferimento all’intento della rivista di aprirsi al pubblico e ai pubblici diversificati, -a usare anche forme di comunicazione consone alla Public History ovvero "di mantenere chiari connotati di scientificità di derivazione accademica, ma di tendere comunque a proporsi informe e con criteri più liberi e autonomi rispetto alla cornice di gestione e controllo tradizionalmente propria degli studi accademici, mostrando una sensibilità nuova per la divulgazione e l’informazione estesa ad un pubblico ampio di lettori. Si tratta di una tendenza che mostra una chiara esigenza di partecipazione e di condivisione di esperienze di ricerca e riflessione, di ampliamento del versante della comunicazione storica oltre i confini del tradizionale circuito accademico, e che è dimostrata in particolare dalla connotazione fortemente giovanile di alcune iniziative, espressione della volontà di tradurre operativamente una formazione agli studi storici costruita nel contesto universitario in una realtà sociale e civile che, com’è noto, presenta particolari difficoltà per i giovani storici."
Minuti rileva simili caratteristiche in alcune riviste online come «Storicamente», «Storia e futuro», «Officina della storia» o il «Giornale di storia». "Tuttavia, -egli scrive-, queste caratteristiche risultano particolarmente evidenti, ad esempio, in un’iniziativa come «Diacronie. Studi di storia contemporanea»,  che nasce a Bologna nel 2009 e che propone, nella presentazione del progetto che ne è all’origine, una lettura delle possibilità offerte dalla rete in termini di esplorazione di nuovi contesti di legittimazione degli studi, di partecipazione, di estensione dei caratteri della scrittura storica mediante l’applicazione delle modalità ipertestuali e multimediali [...]. Un’esigenza diffusa di informazione e partecipazione attiva, -aggiunge ancora Minuti-, che non è certo scaturita dalla rete, ma che con lo sviluppo del web ha sicuramente trovato modo di manifestarsi in modo vistoso e destinato, a mio parere, ad espandersi e ad assumere forme nuove anche rispetto a quelle attualmente esistenti.” (Rolando Minuti: “Le riviste storiche “on-line”, in Studi Storici, aprile-giugno 2012, a.53/2,pp.351-368, qui, p.363-364)

La  “Digital History” per Diacronie è “l’utilizzo di strumenti digitali applicati alla ricerca storica, dall’analisi delle fonti alla diffusione dei risultati” e la rivista si chiede: “Has the digital revolution transformed how we write about the past — or not? Have new technologies changed our essential work-craft as scholars, and the ways in which we think, teach, author, and publish? Does the digital age have broader implications for individual writing processes, or for the historical profession at large?" Si chiede Diacronie se siamo davanti a "una semplice, ma profonda, evoluzione del mestiere di storico? Un nuovo campo disciplinare a sé stante? Qualcosa di ancora differente? Per quel che ci riguarda -scrivono- noi sposiamo con convinzione l’idea esposta in questo numero da Claire Lemercier, secondo laquale è indispensabile una normalizzazione attraverso la quale l’etichetta di“Digital History” non sia più necessaria. Piuttosto che operare per la costituzione di una sotto-disciplina […] a noi sembra importante partire dal principio che, nell’era digitale, tutta la storia è, almeno in parte, digitale. Questo ci porta alla seconda necessità: quella della formazione di future storiche e storici all’uso di strumenti informatici e di risorse digitali indispensabili a molti, se non a tutti, i ricercatori che si occupano di storia. Oggi quella di offrire agli storici in fieri i mezzi per orientarsi nel nuovo mondo digitale è una sfida che non è stata ancora raccolta dalle istituzioni culturali e universitarie."
Questa definizione offre certamente la capacità di dialogare con chi rifiuta, paventa o si disinteressa dell'introduzione della tecnologia e del suo contributo al mestiere di storico hanno sottolineato Deborah Paci ed Elisa Grandi durante la discussione. Mantenere un profilo basso di fronte all'avvento delle tecnologie sarebbe un modo "diplomatico" di poter proporle e, una volta dominate con facilità, permettere di aggiungerle agli strumenti esistenti del mestiere di storico. E' anche questa definizione, molto simile, a mio parere, a quella che della Digital History troviamo sulla Home Page, del sito web del Roy Rosenzweig Center for History and New Media (CHNM) della George Mason University: Digital history is an approach to examining and representing the past that takes advantage of new communication technologies such as computers and the Web. It draws on essential features of the digital realm, such as databases, hypertextualization, and networks, to create and share historical knowledge. Digital history complements other forms of history— indeed, it draws its strength and methodological rigor from this age-old form of human understanding while using the latest technology.”
Ora, dobbiamo considerare la rivoluzione digitale soltanto come complemento, come nuova “boîte à outils” come la Storia Digitale viene chiamata nel blog di Emilien Ruiz e di Franziska Heimburger autori per Diacronie del bel saggio: “Has the Historian’s craft gone digital?“ quando affermano che “we do not have the impression that the “digital revolution” will lead to a change in the fundamental epistemology of historical research. That said, the historian’s craft is changing and it is subject to profound evolution in [its] practices ….
O con Claire Lemercier, nella sua intervista a Diacronie, quando parla degli strumenti digitali che organizzano la scrittura della storia, un concetto molto restrittivo dell'impatto del digitale sull'intero processo storiografico e che non tiene conto delle aspettative epistemologiche nuove dei Digital Humanities ?  
La digital history è una disciplina “autogestita” grazie alla boîte à outils, talvolta con formazioni specifiche all’uso di quei strumenti nuovi, mentre, a livello accademico invece, le digital humanities sono “ufficialmente” già una nuova disciplina. Esistono dei livelli di approfondimento diversi dall’uso degli strumenti del digitale, al pensare diversamente la ricerca attraverso il digitale e grazie al digitale e infine ai processi di comunicazione e di partecipazione della storia negli ambienti digitali. Questi livelli non sono incompatibili.
Ora il problema rimane di sapere se quest'approccio "soft" formulato da Diacronia all'impatto del digital turn nelle scienze umane e sociali e, nello specifico, nelle discipline storiche, permette realmente di carpire l'importanza della rivoluzione epistemologica che ha investito il mestiere dello storico da quando il web è nato. 

La storia digitale possiede quattro dimensioni. 

Zotero
La prima è fatta da quei famosi strumenti, la "boite à outils" dello storico con le tecnologie digitali, ovvero le Risorse e Servizi (1) -software, banche dati, strumenti vari- che internet e soprattutto il web offre allo storico per praticare la storia con il digitale. Diacronia accenna a quei "tools" principi della rivoluzione digitale con il saggio Au-delà de la gestion des références bibliographiques: Zotero scritto da Frédéric Clavert. 
La Storiografia Digitale, (2) ovvero le variegate forme di narrazioni della storia che esistono in rete e che vengono talvolta chiamate storiografia espressiva è la seconda dimensione della storia digitale. mentre le Fonti Primarie (3) nuove, native digitali o meta-fonti che provengono da un passaggio dall'analogico al digitale costituiscono la terza dimensione. Infine, le tecniche, contenuti e servizi che la rete offre per l’insegnamento e la didattica della storia (4) se non incorporate nella prima dimensione del digitale, ne sono, de facto, una quarta per l'importanza del processo didattico a storia.
E anche se accettiamo questa divisione del campo in quattro grande aree, la Digital History pone alcuni problemi che, di per sé, mostrano che la rivoluzione in atto tocca le fondamenta stesso del mestiere dello storico. I contenuti della rete sono di difficile valutazione visto che spesso l'autorità  e l'autorialità in rete di chi scrive viene persa o, fusa all'interno di una narrazione a più mani ed interdisciplinare nella quale ognuno è parte integrante del processo autoriale. Inoltre, in rete e nel virtuale, I contesti spariscono, i contenuti si modificano, ponendo enorme difficoltà a chi volesse ricorrere al concetto di autenticità dei documenti e volesse accertare la loro provenienza. In rete la comunità scientifica ha perso il controllo dei discorsi di storia, anzi, ha abdicato all'idea di proporne direttamente in forme riconoscibili ed accessibili per tutti, sicché la storia che troviamo in rete è la storia di“ognuno”, fatta da tutti. 
Per molti la rete è soltanto il campo del facile plagio. Tuttavia se la rete permette  il ri-uso semplice e la riconversione dell’informazione, è anche molto facile oggi -proprio grazie ai software di rete-, di determinare la provenienza dei contenuti e la loro relativa originalità. 
Certo, la rete necessita di sviluppare una grammatica critica e di insegnare un metodo critico per la storia in rete e questo non viene fatto. L'università -forse è una questione di potere e di generazioni- non riconosce ancora alla storia digitale uno statuto di scientificità né percepisce ancora l'estensione e l'importanza della rivoluzione digitale e nemmeno quello dei Digital Humanities che vengono insegnati sporadicamente come formazione complementare di altre lauree e come laurea breve e magistrale soltanto all'università di Pisa o, come dottorato in Storia e Informatica a Bologna che sembra essersi purtroppo chiuso nell'anno accademico 2009-2010.
La ricerca delle fonti ha, da sempre, caratterizzata l'attività professionale degli storici, e definito il mestiere dello storico. Oggi, la presenza delle meta-fonti, immagini derivate da una fonte analogica che sono spesso migliorative delle qualità che possedevano prima della loro digitalizzazione e, più ancora, di fonti “born digital”, le fonti native in formato digitale, pongono problemi nuovi all'euristica storica e alla storiografia. 
Per non accennare al fatto che i siti web, la rete stessa ed I suoi materiali sono fonti primarie, forse le fonti più ricche e variegate che mai lo storico ha avuto a portata di mano e che permettono di indagare su ogni aspetto presente e passato, diacronici e sincronici, della storia e della memoria. 
Una volta definito il corpus di fonti digitali, queste vengono sottomesse a nuove domande grazie ai nuovi strumenti digitali. Certo, sono necessari gli operatori dell’intermediazione, i cosidetti "passeurs" per usare un termine adoperato nei seminari ATHIS, gli Ateliers Histoire & Informatique in Francia e in Italia, i nuovi professionisti interpreti dei linguaggi storiografici e tecnici che si mescolano nella storia digitale.
Bisogna anche poter ripensare I criteri di valutazione adoperati a fatica finora anche nelle scienze umanistiche di fronte alla presenza di nuovi processi narrativi e delle nuove forme di storiografia che si trovano in rete. Tra metodi, pratiche, narrazione e euristica, vediamo che il metiere dello storico subisce con il digitale una profonda rivoluzione.
Queste breve, schematiche riflessioni, che ho in parte pronunciate durante la presentazione della rivista Diacronie a Bologna, sottolineano che, con la Storia Digitale, non parliamo soltanto di usi di strumenti o di attrezzi nuovi dello storico ai quali bisogna essere introdotti per poi praticare la storia come prima. Possiamo invece equiparare la rivoluzione digitale al periodo della nascita del libro a stampa durante il Rinascimento. A breve la ricerca scientifica si farà solo con fonti digitali e all’interno del digitale. Stiamo assistendo ad una nuova era scientifica per le Scienze Umane e Sociali con i cambiamenti radicali nell’uso degli strumenti, le nuove pratiche ed i nuovi metodi che si applicano a nuovi paradigmi epistemologici derivati dalle nuove fonti disponibili nella rete. Si sviluppano nuovi approcci necessariamente interdisciplinari, si praticano nuove forme di interscambi delle conoscenze con i nuovi media e le nuove tecnologie, si devono pensare nuove forme di valutazione degli oggetti scientifici in formato digitale. Se tutte queste componenti non partecipano di un processo rivoluzionario nella storiografia !

Sono ormai molti gli studiosi che usano con sempre maggiore frequenza il concetto di Digital History per designare una nuova area disciplinare all'interno della storia, prima che la storia tutta diventi storia digitale. Una ricerca con le parole Digital History in Google Ngram Viewer per il periodo che va dal 1980 al 2008, dopo la nascita del web e del browser Mosaic e quando il concetto venne poi introdotto nel dibattito storiografico da Edward Ayers per descrivere il suo progetto Valley of the Shadow, permette di fare risalire al 1993 la data di nascita della disciplina nuova e, potremmo dire, della nuova storia.

  

Thursday, 18 October 2012

OAPEN: online library and publication platform for scholarly books in the Humanities and Social Sciences


OAPEN (Open Access Publishing in European Networks) is a collaborative initiative to develop and implement a sustainable Open Access publication model for academic books in the Humanities and Social Sciences. The OAPEN Library aims to improve the visibility and usability of high quality academic research by aggregating peer reviewed Open Access publications from across Europe.


  I had a chance to assist to one of the first presentation of the OAPEN platform at the University College London, 12 May 2009, during the workshop E-books and E-content 2009. And already at that time, the project and business model for OA was really attractive starting with a partnership with Google Book Search (at that time the name of Google Books). 
   Today the OAPEN platform is the result of an agreement between several scholarly publishers that decided to publicize their commercially sold printed books using also OA for digital copies. They created the OAPEN consortium and accepted an economic model which would offer to authors and readers the possibility to meet thanks to publishers and university presses paying a fee to the consortium to maintain the platform. Doing so they spread knowledge in the Humanities and Social Science disciplines and they provide access to high quality contents in the same fields. Publishers accept to pay such a fee to the consortium to promote in the database their own front list titles and divide the costs of maintaining OA for everybody. Other publishers may join the project. Of course for academic authors writing books that have a restricted diffusion worldwide, this is the best way to promote their research and findings and todiscover better their selected public, connecting through OA to their potentially interested readers. OAPEN is also the result of a peerage process: "publishers or publishing entities (usually research institutes with their own publishing program) need to be predominantly academic publishers, which primarily means they should have proper and transparent procedures for peer review of manuscripts and it should be clear which publications are peer reviewed."

 

At the moment publishers which are partners within the OAPEN platform are the following: 


A very important feature of the project is compatibility of their bibliographical meta-data's with other databases. OAPEN wants to be fully interoperable with academic libraries and databases in general using some open meta-data's formats to describe their OA eBooks.(ONIX – XML -MARCXML – based on MARC 21 XML Schema - CSV – comma delimited text file - XML - optimised for import in Excel -XML - deleted records). These data's are in the public domain and could be used by anybody wishing to harvest them under a Creative Common license: it enables Libraries and Aggregators to use the metadata of all available titles of the OAPEN Library.

How to join ? Here are the official information available on the OAPEN website:

"Joining OAPEN

OAPEN combines the advantages of an independently operating commercial venture with the benefits of being embedded in the scholarly community. Joining the OAPEN network involves no membership costs, while giving you privileged access to information-sharing and lobbying that are an important part of the initiative. Listing your titles in the OAPEN Library involves a fee which starts at around €700, depending on the size of your frontlist, as well as the number of titles submitted to the OAPEN Library.

Who should join?
  • publishers with a focus on the humanities and social sciences who would like to explore Open Access;
  • research institutions with an existing publishing programme or an interest in publishing;
  • research funders with programmes for the humanities and social sciences.
OAPEN is also open to cooperation with other partners, as long as their business goals are consistent with Open Access.

Why join?
  • OAPEN is a mission-driven network dedicated to promoting OA publishing as an essential service to the academic community. OA publishing is in the public interest and should be seen as an essential service to the scientific community and to society at large.
  • We promote common standards and share valuable information on, and experiences of, markets as well as business and publishing models. We will save you time and effort in the transition to sustainable OA publishing."

Sunday, 14 October 2012

Se la Fotografia è Fonte per la Storia, la Fotografia Digitale è Fonte per la Public History ? A proposito di un convegno dell'Istituto Veneto, 4-6 ottobre 2012

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Palazzo Franchetti, Istituto Veneto
Dal 4 ottobre al 6 ottobre 2012, ho avuto il piacere -perché di vero piacere si è trattato- di partecipare al convegno La Fotografia come Fonte per la Storia che si è svolto a Venezia presso l'Istituto Veneto per le Scienze Lettere e Arti, nel grandioso Palazzo Franchetti, affaciato sul Canal Grande, sede di  mostre di arte contemporanea come in queste settimane, della biennale di architettura di Venezia.
Partecipanti raggruppati dietro a Marina Miraglia,  Presidente Onoraria della SISF, la Società Italiana per lo Studio della Fotografia


Un video dei lavori del convegno è disponibile in rete su Youtube e nel sito stesso dell'Istituto. Partecipavo ad una tavola rotonda dal profumo spiccatamente transdiciplinare coordinata dallo storico contemporaneista Mario Isnenghi che ha applicato all'Italia lo studio dei "luoghi di memoria" della Francia di Pierre Nora. Gli altri partecipanti erano, la storica delle donne e della resistenza, Maria Teresa Sega e alcuni illustri intelletuali e scienzati come lo studioso di letteratura comparata Remo Ceserani, lo specialista di teoria dell'informazione Giuseppe O. Longo, l'etologo e infine, studioso dei comportamenti animali Danilo Mainardi, popolare personnalità della televisione italiana.

 
Il mio contributo verteva oviamente sulle fonti fotografiche dal punto di vista della storia digitale e sulla loro pubblica presenza in rete, una fonte essenziale per la "public history".

Prima di parlarne, torno un istante su cosa si proponeva di fare questo convegno nel quale ho avuto anche l'occasione di incontrare un mito della mia gioventù universitaria a Bruxelles, lo storico del cinema e dei media della Sorbonne, Pierre Sorlin, che si propone oggi di analizzare i linguaggi degli storici nel web.
Da sinistra a destra al primo piano: Gian Piero Bruneta, Carlo Alberto Zotti Minici e Alberto Prandi

Gli ideatori ed organizzatori, Gian Piero Brunetta, Carlo Alberto Zotti Minici e Sara Filippin, avevano annunciato lo spazio scientifico del convegno: Il modello dominante di storia della fotografia, almeno in Italia, è ancora quello estetico e per autori, affermano Brunetta e Zotti nella loro introduzione al convegno. Tale modello risulta però riduttivo poiché non tiene sufficientemente conto degli usi sociali che coinvolgono la fotografia. Oltre che opera d'arte, la fotografia è anche un modo, culturalmente e socialmente determinato, di divulgare idee ed eventi, di evocarli e ricordarli, di occultarne e mistificarne altri, in sostanza di costruire una politica e una memoria storica: è quindi fonte, documento ma anche mezzo di rappresentazione della realtà. Da ciò deriva l'importanza di pensare ad una storia della fotografia che sia anche storia della presenza sociale di questo mezzo ormai parte dell'orizzonte visivo e del vissuto di tutti: non più una storia della fotografia, ma una "storia delle fotografie",  una storia di storie....


Certo non so di Storia d'Italia attraverso la fotografia che era il tema che si declinava anche nelle sue caratteristiche regionali venete. I veri specialisti del tema, quelli che hanno studiato la storia delle fotografie italiane e il loro nesso con la storia d'Italia, Gabriele D'Autilia, Giovanni Fiorentino, Adolfo Mignemi, Luigi Tomassini e tanti altri, erano presenti. Mancavano forse all'appello  Giovanni De Luna e Peppino Ortoleva che hanno entrambi rinnovato le riflessioni sulla fotografia come media comunicativo e come fonte per la storia. Per De Luna, la fotografia -anche storica- già dagli anni ’80 si era imposta come fonte centrale per una nuova storia proprio in funzione dei suoi aspetti mediatici e comunicativi che, penso, siano ancora maggiormente rafforzati dall’apparizione del digitale e dalla rivoluzione tecnologica vissuta negli anni ’90.
André Gunthert, specialista degli studi visivi all’EHESS a Parigi, rileva oggi che l’approccio critico al documento fotografico analogico, non è dissimile da quello che dobbiamo avviare con il digitale. L’elemento di falsità che era inerente anche all’immagine analogica si ritrova certo con il virtuale, ma non ne falsa sistematicamente l’attendibilità e, soprattutto, ci offre un ulteriore terreno di inchiesta, sicché si può affermare che il paradigma realistico della fotografia sopravvive con il digitale.
       Mi sono dunque limitato a parlare di digitale, ovvero di fotografie digitali o, meglio ancora delle caratteristiche della rivoluzione digitale e di come il digital turn abbia permesso di intendere diversamente in rete la presenza sociale, spesso politica della circolazione delle immagini che sottolineano processi identitari e invocano memorie individuali e comunitarie che non possedevano una rappresentazione prima di approdare nella rete. E questo vale anche per le testimonianze del passato che non trovano ascolto nel presente e per i documenti dimenticati delle generazioni precedenti che accompagnano queste memorie. La presenza di milioni di fotografie nei netwok sociali, quelle fotografie che ripetono all'infinito i riti sociali e popolari di ogni individuo e di ogni commmunità, sono la continuazione di quelle fotografie analogiche di famiglia che Pierre Bourdieu aveva analizzate nella loro ripetitività. Daniel Roche interessandosi a “l’Histoire des choses banales” -lo statuto che Bourdieu certamente attribuiva alle fotografie di famiglia negli anni ’60 e ’70 nel suo saggio sulla fotografia come "arte media"-, ha tratto una precisa ricostruzione della vita parigina attorno alla rivoluzione francese, grazie al giornale del vetraio Jean-Louis Ménétra, un umile artigiano letterato. 
Forse si tratterà soltanto, con le fotografie che provengono da fondi pubblici e da collezioni private, di rintracciare anche lì il segno, la traccia che cerca Carlo Ginzburg nelle piccole cose e nel locale? E nella moltitudine di documenti simili, moltiplicare le stesse tracce digitali per ottenere un senso a loro comune? A quel punto re-indirizzeremo la critica della fonte fotografica e l’analisi del contesto digitale in modo diverso anche grazie al loro grande numero e alla loro sistematica ripetitività?
Lanterna Magica, fotografia scattata da Luigi Chiesa, disponibile in Wikimedia.

La rivoluzione digitale ha trasformato profondamente la storia stessa della fotografia con il passaggio dalle pellicole ai pixel e questo anche se siamo, mi sembra, ritornati alla seconda metà del XVII° secolo quando Athanasius Kircher rappresentava  uno strumento che aveva visto in Cina, la lanterna magica che progettava la luce attraverso vetri dipinti. Come allora i vetri dipinti, le fotografie digitali oggi necessitano di uno strumento per essere visualizzate, illuminate. Quello che teniamo in mano non sono le fotografie, ma soltanto degli emulatori di fotografie, questi strumenti che mediano tra i nostri occhi e le fotografie che abbiano scattato o stiamo visionando.


A Venezia, ho tentato di introdurre il tema del digitale attraverso la metafora del giocatore di bowling pronto a lanciare la boccia verso birilli che rappresentano le conoscenza e le pratiche consolidate. I birilli rappresentano tuttora un sapere accertato in materia di fotografia e della storia e della critica della fotografia. Dovremmo verificare, una volta lanciata la boccia che rappresnta il digital turn, quanti birilli rimarranno in piedi.


Questa rivoluzione digitale, come insegna Gunthert, ha avuto un impatto rivoluzionario sulle pratiche con la fotografia nel 21° secolo e sull'intera cultura visiva contemporanea, sull'intero campo dei visual studies. Il nuovo ruolo socio-politico delle immagini in rete ha permesso così alcuni cambiamenti epocali nelle pratiche di ognuno con le fotografie. E non solo con le fotografie potremmo aggiungere parlando di come la storia si declini in molti modi non controllati n
é controllabili in rete. E' la storia stessa che possiede oggi nuove fonti che non sono soltanto documenti negli archivi o riproduzioni di immagini in altri contesti analogici, ma nuove fonti documentate nei nuovi contesti communicativi del mondo digitale. Tutte le fotografie di rete sono potenzialmente fonti per la storia, indipendentemente dalla loro origine e dalle loro collocazione nei siti web. 

Isabella Balena (2004) Ci Resta il Nome
Ed è molto difficile -soprattutto nell’era dei network sociali e del web 2.0-, dividere le fotografie tra una produzione pubblica e istituzionale e, invece, una produzione d’immagini private. Pubblico e privato, sono concetti poco definiti nell’era digitale. Questo vale soprattutto per quanto riguardano le immagini fotografiche che circolano nella rete e che sono parte integranti di siti web che connottano di significati talvolta diversi e contradditori le immagini che veicolano. Ho studiato altrove come le fotografie violenti della seconda intifada in Israele siano utilizzate da entrambi gli schieramenti con descrizioni opposte nei siti web della rete mondiale. La stessa fotografia permette opposte caption di quello che ci documenta come ha sottolineato Arturo Carlo Quintavalle, eminente critico d'arte parmense, durante le giornate veneziane, parlando del doppio uso, franchista e repubblicano, delle stesse fotografie della Guerra civile di Spagna. 

Come fonti, le immagini e i suoni ci parlano del loro presente scrive Giovanni De Luna (La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p.195). Tuttavia, le fotografie non parlano solo del loro presente come si è ben visto attravero l'opera della fotografa Isabella Balena che documenta oggi la Guerra Civile italiana del 1943-45. Isabella Balena sceglie di fotografare le testimonianze che rimandano anche storicamente, nelle informazioni che offrono le sue fotografie, alla Seconda Guerra Mondiale. Il suo libro Ci resta il nome pubblicato nel 2004, è un tentativo di ricordare nell'oggi quel passato. L'atto di fotografare i luoghi e le modalità con i quali, oggi, la memoria viene mantenuta viva e coltivata attorno ai luoghi del passato, documenta sia in modo sincronico, immediato, nel presente, che diacronico, quando rivela e documenta il passato. Quando Isabella Balena, parlando di se stessa e della sua attività, si scopre public photographer, inscena una forma di reenactment diremmo oggi per nominare un'attività cara alla Public History, ovvero una rivisitazione attuale attravero l'occhio della sua macchina fotografica, delle testimonianze materiali - i luoghi di memoria materiali afferma lo storico Jay Winter- della seconda guerra mondiale, un passato che segna l'ambiente, il paesaggio, le città e che Balena fotografa oggi sapendo perfettamente di anche documentare il passato e le sue memorie talvolta controverse.

    Non solo dal punto di visto comunicativo, la rete ha profondamente innovato con la fotografia. Ha questionato anche la conoscenza che si era costruita attorno all'apparato critico, descrittivo e di riflessioni scientifiche che ruota attorno alla fotografia, al supporto che contiene le fotografie e, soprattutto, attorno alla loro conservazione negli archivi. Le foto non sono più soltanto singoli documenti parte di fondi analogici negli archivi, descritti in rapporto al fondo -e anche individualmente- con alcuni meta-dati o con una scheda predisposta all'uopo dal ministero. Oggi le fotografie in viaggio nella rete sono parti integranti di un sito web che danno alle foto un senso "altro" e sempre da analizzare. Oltre quello che ci fa vedere, la fotografia in rete è soprattutto fatta di alcuni bites i punti di luce che, insieme ad altri bites, appartengono ad una struttura ipertestuale fatta di testi, video, immagini, rimandi, pagini, ecc.. Ed è come tali che le fotografie devono essere interpretate e decifrate, usando di criteri adattati al nuovo media, la rete, come quelli che avevamo individuati nel 2004 per un avvicinamento critico ai siti web. (Antonino Criscione, Serge Noiret, Carlo Spagnolo and Stefano Vitali: La Storia a(l) tempo di Internet: indagine sui siti italiani di storia contemporanea, (2001-2003)., Bologna, Pátron editore, 2004). 
Il digital turn non sembra tuttavia aver messo in discussione l'essenza stessa della fotografia come documento, la sua stessa ontologia. La fotografia documenta il mondo dal XIX° secolo. La fotografia digitale in rete continua certamente a farlo permeata delle nuove caratteristiche del media che la proietta in rete sicché, per analizzarla, bisogna capire il web e le sue trasformazioni. Le fotografie ci raccontano le loro storie nel presente, oggi come ieri, ma diventano anche documenti della memoria. 
      La fotografia sembra spesso ripudiata dagli storici come oggetto scomodo, difficile da trattare se non per illustrare un discorso. Essa invece permette anche di farsi narrazione e narrazione pubblica. E' un modo di fare storia a partire delle cose e delle persone che sono fotografate. Fare il fotografo oggi può così diventare un modo per creare un documento e un preciso racconto attorno al rappresentato. Siamo entrati così intimamente, con la fotografia di rete, anche nell'ambito della Digital Public History, della storia pubblica.