Tuesday, 14 May 2013

Un decalogo sul digital turn e la fotografia come fonte per la storia

Le breve considerazioni che seguono sono state presentate durante il convegno dell'Ottobre 2012 all'Istituto Veneto a Venezia già commentato in questo blog e rimesse a fuoco per una lezione all'Università di Pisa (Seminario di Cultura Digitale - Mercoledì 8 maggio 2013 - ore 14:15 - Aula Seminari Est - Dipartimento di Informatica - Pisa) intitolata: Nulla sarà più come prima. Considerazioni sul digital turn e le fonti fotografiche dal punto di vista della storiografia. 
(I seminari di Cultura Digitale di Informatica Umanistica a Pisa sono anche disponibili come podcast in Itunes University.)

Le fotografie digitali necessitano di uno strumento per essere illuminate


A.Kircher: Ars Magna Lucis et Umbrae: Liber Decimus.,

Università di Santiago de Compostela, 1671.

(Disponibile in GoogleBooks.)
Il passaggio dalle pellicole ai pixel, una vera rivoluzione, ha profondamente trasformato la storia stessa della fotografia. 

Così come per la lanterna magica, descritta da Athanasius Kircher nel Settecento, che proiettava la luce attraverso vetri dipinti, le fotografie digitali di oggi necessitano di uno strumento per essere illuminate. 

Quello che teniamo in mano non sono le fotografie, ma soltanto gli emulatori di fotografie, questi strumenti che mediano tra i nostri occhi e le fotografie che abbiamo scattato o stiamo visionando, quasi come le proiezioni dell’antica lanterna magica.

Da sola, la fotografia digitale non esiste come invece esistevano nelle nostre mani i dagherrotipi o le pellicole con il bromuro d’argento. In questo senso il significato dell’immagine deriva sempre dalla semiotica: una relazione che lega qualcosa di materialmente presente –l’oggetto fotografico analogico o digitale che sia- a qualcos'altro di assente, di passato attraverso una traccia presente nella fotografia, un segno, forse il punctum di Barthes. Con il digitale, sia l’aspetto indiziario dell’oggetto fotografico che l’aspetto mediatico e comunicativo dell’immagine sono ancora presenti. Soltanto dobbiamo capire che quelle combinazioni di pixel e di procedimenti che permettano di leggerli nel virtuale, si collocano in una nuova fase della storia della fotografia e dello sviluppo di una riflessione euristica sui suoi connotati di fonte primaria per assecondare la ricerca storica.


"It does not matter how big the paintings are, visitors discover them only using their smartphones, always!”, fotografia scattata dall’autore e disponibile in rete nel blog Photographs by Serge Noiret.

Cosa caratterizza il digital turn applicato alla fotografia?

La prima costatazione è che le fotografie digitali non esistono senza lettori che ci restituiscano la composizione dei loro pixel impressi dalla luce. Il loro uso in rete è semplice, senza drastici problemi tecnici che ne renderebbero difficile l’accesso anche se abbiamo bisogno di rivelarle usando di uno strumento. 
La seconda costatazione, è che tutte le fotografie di rete sono potenzialmente fonti per la storia indipendentemente dalla loro origine e dalle loro collocazioni nei siti web.
La terza costatazione verte sul fatto che è molto difficile -soprattutto nell'era dei network sociali e del web 2.0-, dividere le fotografie tra una produzione pubblica e istituzionale e invece, una produzione d’immagini private: “pubblico e privato” sono concetti poco definiti nell'era digitale. Questa costatazione caratterizza la presenza delle memorie mediate dal digitale e vale soprattutto per le immagini fotografiche che circolano nella rete.
Una quarta costatazione è che sono pure fonti utili per la storia le copie e le derivazioni di originali analogici che si trovano in rete, come accadeva già con le fotografie analogiche approdate in altri media, mentre nel mondo digitale è talvolta difficile parlare di fotografie originali, nel senso di “matrice” dalla quale deriverebbero possibile copie. Tutt'al più, se non appartengono ad archivi e biblioteche digitali, potremmo segnalare la prima apparizione cronologica di un’immagine in rete o più prosaicamente indicare quando l’abbiamo incontrata e dove?
Una quinta costatazione è che mai come nell'era digitale, la fotografia come fonte –aggiungendo anche le fotografie storiche digitalizzate- è stata così accessibile e disponibile per la ricerca storica e anche così imbavagliata dalle leggi sul copyright perfino per riproduzioni in ambito scientifico e senza scopo di lucro.[1]
Una sesta costatazione è che il digitale ha moltiplicato in modo esponenziale la presenza di fotografie in rete che riguardano i fatti più intimi e personali degli individui di tutte le età, insieme all'analisi documentata e nei minimi particolari, di quello che ci circonda: dai fatti familiari al giornalismo partecipativo e al protagonismo nei movimenti politici e rivoluzionari. Leggiamo riflessioni antropologiche, sociologiche e politologiche sul senso dell’appartenenza sociale e memoriale della fotografia nel mondo contemporaneo in relazione alla sua presenza nei social networks.[2]
Da quest’aumento imponente degli scatti e dalla loro indiscriminata presenza in rete, deriva una settima constatazione che vede  attenuarsi la differenza tra professionisti e amatori. Tale attenuazione è ancor più evidente se comparato ai periodi in cui si diffusero le macchine fotografiche nelle famiglie, come, ad esempio, attorno alla prima guerra mondiale e soprattutto durante la guerra fredda e anche le pellicole negative a colori Agfacolor (1932) e Kodachrome (1935). D'altronde,  dal punto di vista dello storico alla ricerca di testimonianze, scatti di artisti e maestri riconosciuti, di foto-reporter o del ragazzo della porta accanto, perché dovrebbero importare se le informazioni sono intelligibili e contestualizzabili? André Gunthert, professore al LHIVIC (Laboratoire d’histoire visuelle contemporaine) a Parigi e autore dell'eccellente "carnet de recherche" o blog, intitolato, "l'Atelier des Icones", scrisse un Tweet, per sottolineare il combattimento perso da parte dei fotografi professionisti contro le conseguenze del digital turn e contro la rete aperta a tutti. Non esiste più una gerarchia tra fotografie digitali scattate dai professionisti e quelle dei foto-amatori: «il suffirait en effet d'interdire Wikipedia, internet et les photos de vacances pour sauver la profession» scrisse Gunthert con ironia.[3]


http://culturevisuelle.org/icones/


Oggi attraverso il digitale, il media “fotografia” è più che mai alla base della cultura contemporanea globalizzata: le stesse fotografie sono viste da gruppi culturali, etnici, religiosi diversi in tutti i continenti, e questa è un’ottava costatazione. Siamo intimamente permeati dalle icone globalizzate e produciamo noi le fotografie, lo fanno gli altri e soprattutto i più giovani, lo fanno tutti e tutti le vedono. L’immagine fissa e quella in movimento ha invaso ogni aspetto della nostra vita a tal punto che possiamo affermare che l’uomo del 21° secolo accede a gran parte della sua conoscenza soltanto attraverso quello che vede e non quello che legge.
Il vero patrimonio digitale del 21° secolo è conservato nei maggiori social networks che appartengono alle compagnie private come Facebook, Flickr, Youtube, Twitter, Instagram, Tumblr, Google+, Picasa, per citare soltanto alcuni dei più noti archivi di fotografie digitali.[4] Anche enormi archivi nativi digitali con le fotografie dei professionisti (Getty Images) o gli archivi digitali delle agenzie di fotografie, non possono competere con quelle quantità di fotografie alle quali si accede spesso liberamente in rete e che vengono scattato da fotografi amatoriali. Grazie alla partecipazione di massa nei social network, la fotografia è stata messa sugli scudi proponendola come illustrazione di ogni piccolo dettaglio e di ogni ambito della nostra vita quotidiana oltre che sociale e pubblica. E l’ubiquità della fotografia digitale amatoriale si configura come la nostra nona costatazione.
Questa rivoluzione epocale ci obbliga infine a riflettere in modo interdisciplinare sull'ubiquità dell’immagine e sul suo ruolo antropologico prima che ancora di fonte storica. Di fatti una società come la Società Italiana per lo Studio della Fotografia, (SISF) in Italia che vede la fotografia come bene culturale da diversi punti di vista scientifici dimostra che non vi sono soltanto storici che lavorano con le fonti fotografiche o storici della fotografia, ma persone che provengono da tutte le discipline umanistiche e dalle scienze sociali che ormai guardano alle immagini come strumenti che ci offrono le chiavi per capire il nostro tempo. Di fatti, -e sarà questa la nostra decima costatazione- la rivoluzione digitale ha portato con sé –e lo studio dell’immagine fotografica digitale ne è un esempio maestro- una rivoluzione trans-disciplinare e una sovrapposizione di linguaggi che concorrono tutti, da diversi punti di vista, allo studio e all'interpretazione nonché al trattamento, alla fruizione e alla comunicazione delle fotografie digitali.[7]

Si può presumere che la rivoluzione digitale non abbia intaccata le problematiche già esistenti con l’uso della fotografia analogica come fonte. Se  possiamo concordare sui termini di una continuità nel lavoro euristico dall'analogico al digitale con le fotografie come fonti, vorrei tuttavia menzionare ora che, oltre questo decalogo sul digital turn per la fotografia, esistono delle pratiche nuove applicate alla fotografia che la rivoluzione digitale ha generato. Se non mutano fondamentalmente i termini delle discussioni sul valore documentario delle fotografie, dovremo invece fornire nuove riflessioni legate soprattutto a queste pratiche pubbliche che la rete suscita e favorisce grazie alle nuove tecnologie del web 2.0 anche per l’uso delle immagini digitali. Ma questa riflessione richiede certamente un supplemento d’indagine oltre che un futuro post in questo stesso blog.





[1] Il CVCE di Lussemburgo (Centre Virtuel de la Connaissance de l’Europe) che lavora molto con fonti fotografiche ed iconografiche digitalizzate possiede una squadra di specialisti del copyright digitale diretta da un “legal officer” che affianca il lavoro degli storici edei tecnici del computer per realizzare gli ipertesti storici sulla storia dell’integrazione europea. In Gran Bretagna, il JISC ha elaborato una lezione aggiornata regolarmente che permette di cercare le fotografie che servono per una ricerca scientifica ed evitare di incappare in violazioni delle regole del copyright, D.Kilbey: Internet for Image Searching.
[2]J.Garde-Hansen: “Digital memory practices. My Memories? Personal digital archive fever and Facebook.”, in Save as.. digital memories., a cura di J. Garde-Hansen, A .Hoskins e A .Reading, Basingstoke, 2009, pp.135-150. Aussi P.Hamilton, «A Long War. Public Memory and the Popular Media» in Memory, Histories, theories, debates., a cura di S. Radstone e B. Schwarz, New York, 2010, pp.299-311.
[3]A.Gunthert: Tweet del 3/10/2012, in @gunthert.
[4] Questi archivi aspettano ancora di essere pensati in funzione di una loro conservazione a lungo termine con le caratteristiche descrittive dell’erudizione filologica. Solo Twitter possiede un piano di donazione con la Library of Congress di Washington. Al momento di scrivere, non è ancora stato allestito un accesso ai tweets per gli studiosi. G.Osterberg: “Update on the TwitterArchive at the Library of Congress”, 4 gennaio 2013, in Library of Congress Blog.
[7] F.Faeta: Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria., Torino, 2011 s’interessa della visione antropologica in rapporto alle fonti fotografiche.
[8] L.Tomassini: "Vita nuova di vecchi media: le fotografie storiche in rete fra divulgazione e ricerca”, in Media e Storia, a cura di F.Mineccia e L.Tomassini, numero speciale di Ricerche Storiche, a.33, n.2-3, maggio-dicembre 2009, pp. 363-437. Ringrazio qui Luigi Tomassini per la sua rilettura dell'intero lavoro del quale questo intervento è tratto.

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