L'archeologia pubblica o Public Archeology in Italia
I 29 e 30 ottobre 2012 presso la sala d’arme di Palazzo Vecchio a Firenze, si è tenuto il primo congresso di archeologia pubblica in Italia. Archeologi, amministratori, giornalisti, investitori privati e
professionisti si sono così interrogati su come pensare l'archeologia nella nostra società, il suo pubblico, il suo valore economico -l'archeonomics-, le sue modalità di comunicazione, il suo apparato giuridico di protezione, la sua conservazione, valorizzazione e tutela pubblica, richiamata dal giurista Giovanni Maria Flick, già presidente dell Corte Costituzionale, nella sua introduzione alla prima giornata del convegno. (Gli abstracts di tutti gli interventi erano disponibili in anteprima).
Come ha ricordato Daniele Manacorda nella sua magistrale conclusione alla prima giornata, gli archeologi devono aprirsi sul mondo, avere coraggio e spirito creativo e di innovazione: dove e quando possono, devono suscitare e approfittare dell'interesse delle communità che circondano le vestigia e le testimonianze materiali del passato come beni da custodire e valorizzare anche attraverso la partecipazione diretta di queste comunità. Gli archeologi non devono avere paura del pubblico. Agire professionalmente come archeologo con le communità interessate al loro passato è, senza dubbio, una delle maggiori caratteristiche dell'archeologia pubblica oltre che, in generale potrei aggiungere, della Public History.
Un archivio Twitter dell'intera conferenza
Il livetwitting del 29 ottobre, primo giorno di congresso, con l'hashtag #archpub e anche del secondo giorno, 30 ottobre 2012 è stato offerto nel blog generazione di archeologi da parte di "maraina81". Mentre Chiara Zuanni, offre la storia con i Tweets dell'intero Congresso. Un approfondita analisi dei lavori e dei suoi punti forti è anche disponibile nello stesso blog "generazione di archeologi" con un resoconto sistematico delle due giornate di lavoro.
Archeologia e identità culturale
Archeologia e identità culturale
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Archeologia Pubblica si, Public History no ?
Se pensiamo all'assenza della Public History in Italia, poter segnalare l'esistenza di un Primo Congresso Nazionale di Archeologia Pubblica, promosso dalla cattedra
di Archeologia Medievale dell'università di Firenze, diventa un fatto di fondamentale importanza anche per la disciplina nel suo insieme. Anche perché, a mio parere, il convegno è riuscito oltre tutte le aspettative a circoscrivere il terreno e le problematiche "pubbliche" dell'archeologia e degli archeologi che tentano di "passare" un loro discorso professionale nella società tutta anche con l'uso delle nuove tecnologie e nuovi media del digitale. In Italia si vive nel mezzo delle testimonianze fisiche del passato nelle città musei e nei centri urbani, ma anche nei paesaggi. I beni culturali sono certamente un aspetto culturale fondamentale della ricchezza di questo paese che dovrebbe costruire il suo futuro economico -oltre che culturale- anche in funzione di questo straordinario patrimonio anche archeologico.
L'archeologia non vive nei cenacoli universitari soltanto e negli scavi tenuti lontani dal pubblico dei curiosi o meno ancora nelle colpevoli chiusure di intere zone archeologiche per mancanza di mezzi o per poter assicurare soltanto conservazione e custodia. Essa ha bisogno della curiosità del pubblico e del sostegno del pubblico per potere diventare archeologia viva, Public Archeology.
E difatti, se l’interesse per l’archeologia pubblica a Firenze e in Toscana risale al 2009-2010, questo convegno è –a mia conoscenza- la prima riflessione sistematica -anche teorica- che viene proposta in Italia in quel campo della public history -e della public archeology in questo caso-, dimensione questa che, negli Stati Uniti, è principalmente legata alla storia contemporanea dei due secoli precedenti e alle sue testimonianze materiali.
Sulla scia delle impellenti necessità finanziarie di promozione e mantenimento dell’ingente patrimonio culturale del paese, chi si interessa oggi di Beni Culturali italiani spinge a ripensare le modalità della loro gestione e fruizione per il pubblico, e non soltanto attraverso le risorse pubbliche. Lo scopo del convegno di Public Archeology di Firenze si proponeva così di “trasformare i Beni Archeologici da un costo pubblico a un fattore misurabile di sviluppo socio-economico-culturale per la comunità nazionale”.
Sotto la guida di Guido Vannini all'Univerisità di Firenze, l’archeologia toscana aveva già cominciato a cercarsi una sua strada “pubblica”. Scrive l'archeologa Chiara Bonacchi promotrice dell'evvento: “con questo termine -archeologia pubblica- che traduce la denominazione anglo-sassone di Public Archaeology, s'intende lo studio e la promozione su base scientifica del rapporto tra la ricerca archeologica e vari soggetti pubblici e privati (enti locali, musei, società private di progettazione e allestimento, imprese produttive che sfruttano i legami con il territorio) in funzione del raggiungimento di obiettivi di rilevanza socio-economica.” (Si veda “L’archeologia toscana diventa pubblica”, Notiziario dell’università degli studi di Firenze, n.7, 2010) e di Chiara Bonacchi: “Archeologia pubblica in Italia: origini e prospettive di un ‘nuovo’ settore disciplinare”., in Media e storia, a cura di Francesco Mineccia e Luigi Tomassini, Ricerche storiche, a.39, n.2-3 maggio-dicembre 2009, pp.329-350.)
L'archeologia non vive nei cenacoli universitari soltanto e negli scavi tenuti lontani dal pubblico dei curiosi o meno ancora nelle colpevoli chiusure di intere zone archeologiche per mancanza di mezzi o per poter assicurare soltanto conservazione e custodia. Essa ha bisogno della curiosità del pubblico e del sostegno del pubblico per potere diventare archeologia viva, Public Archeology.
E difatti, se l’interesse per l’archeologia pubblica a Firenze e in Toscana risale al 2009-2010, questo convegno è –a mia conoscenza- la prima riflessione sistematica -anche teorica- che viene proposta in Italia in quel campo della public history -e della public archeology in questo caso-, dimensione questa che, negli Stati Uniti, è principalmente legata alla storia contemporanea dei due secoli precedenti e alle sue testimonianze materiali.
Sulla scia delle impellenti necessità finanziarie di promozione e mantenimento dell’ingente patrimonio culturale del paese, chi si interessa oggi di Beni Culturali italiani spinge a ripensare le modalità della loro gestione e fruizione per il pubblico, e non soltanto attraverso le risorse pubbliche. Lo scopo del convegno di Public Archeology di Firenze si proponeva così di “trasformare i Beni Archeologici da un costo pubblico a un fattore misurabile di sviluppo socio-economico-culturale per la comunità nazionale”.
Sotto la guida di Guido Vannini all'Univerisità di Firenze, l’archeologia toscana aveva già cominciato a cercarsi una sua strada “pubblica”. Scrive l'archeologa Chiara Bonacchi promotrice dell'evvento: “con questo termine -archeologia pubblica- che traduce la denominazione anglo-sassone di Public Archaeology, s'intende lo studio e la promozione su base scientifica del rapporto tra la ricerca archeologica e vari soggetti pubblici e privati (enti locali, musei, società private di progettazione e allestimento, imprese produttive che sfruttano i legami con il territorio) in funzione del raggiungimento di obiettivi di rilevanza socio-economica.” (Si veda “L’archeologia toscana diventa pubblica”, Notiziario dell’università degli studi di Firenze, n.7, 2010) e di Chiara Bonacchi: “Archeologia pubblica in Italia: origini e prospettive di un ‘nuovo’ settore disciplinare”., in Media e storia, a cura di Francesco Mineccia e Luigi Tomassini, Ricerche storiche, a.39, n.2-3 maggio-dicembre 2009, pp.329-350.)
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