Tuesday, 21 October 2014

Storia Digitale o Storia con il Digitale ? E' lecito porre la domanda ?

La storia digitale ha rimodellato la documentazione dello storico e gli strumenti usati per accedervi, immagazzinarla e trattarla senza tuttavia che l’uso critico di questi strumenti -che non sono asettici nel rapporto tra lo storico e le fonti digitali-, fossero questionate a dovere nell’università italiana.
A livello internazionale invece, il terremoto del digital turn ha suscitato molti interrogativi nella professione confrontata globalmente con le incertezze sul futuro di una storiografia con il digitale, tra inquietudine e rigetto. La storia digitale richiede di riscrivere e reinterpretare i metodi professionali e di dominare le nuove pratiche nel digitale.[1] I cambiamenti delle pratiche professionali degli storici sono tali che ci dobbiamo interrogare su quali sia l’impatto di quella storia digitale sulle forme tradizionali di narrazione del passato e sui tempi della storia.[2] Ci possiamo chiedere se, alla luce della diffusione pubblica delle tecnologie, non dobbiamo rivedere in profondità il rapporto stesso che intratteniamo con il passato, la memoria e la storia nel presente.[3]
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 Le pratiche degli storici impegnati a dominare -e anche forgiare- la tecnologia, avrebbero avuto come effetto di creare dei ghetti e di impaurire la professione tutta confrontata con il digital turn. Esistono difficoltà obiettive nel gestire le tecnologie digitali sempre più diffuse nel pubblico e usate -spesso egregiamente- all’infuori della professione.[4] Les incertitudes d'une mutation scriveva Rolando Minuti nel 2002,[5] Promises and perils of Digital History, ammonivano Daniel J.Cohen e Roy Rosenzweig nel loro manuale di digital history pubblicato nel 2006,[6] mentre ancora nel 2013, il catalano Anaclet Pons scrive un libro sulla storia digitale intitolandolo El desorden digital[7] in riferimento alla babele di una documentazione digitale difficile da dominare come lo aveva descritto Borges.[8] Questi studiosi interpretano il digital turn e la digital history partendo da una riflessione sui cambiamenti del mestiere di storico tradizionale. L’approccio non è né ottimista né pessimista, ma è quello di chi vuole capire le mutazioni tecnologiche alla luce di un positivismo critico –Cohen e Rosenzweig parlano di “tecno-realismo”-[9] non sottomesso alla tecnologia stessa, ma certamente interessato a essa. Toni Weller nel suo libro “History in the Digital Age”,[10] insegna che non tutti gli storici che utilizzano le risorse digitali e il computer sono “storici digitali”. Egli evidenzia l’impatto morbido della rivoluzione tecnologica applicata alle pratiche preesistenti degli storici e in continuità con le loro tradizioni professionali.[11] In sintonia con queste deduzioni di Weller, i risultati di un importante inchiesta Americana sulle pratiche della storiografia con il digitale sottolineano che “the underlying research methods of many historians remain fairly recognizable even with the introduction of new tools and technologies, but the day to day research practices of all historians have changed fundamentally”.[12]
THATCamp Paris 2010
Sempre dello stesso parere, la versione italiana del manifesto dell’Umanistica digitale nei suoi tre primi punti, recita che “la svolta digitale della società esplora e modifica le condizioni di produzione e di diffusione dei saperi” e che “le Digital Humanities riguardano l’insieme delle Scienze umane e sociali, delle Arti e delle Lettere, […] [e] non fanno tabula rasa del passato. Si appoggiano, al contrario, sull’insieme dei paradigmi, dei saperi e delle conoscenze proprie di queste discipline, mobilitando gli strumenti e le prospettive peculiari del digitale; le Digital Humanities designano una “interdisciplina” che include metodi, dispositivi e prospettive euristiche legate al digitale nel campo delle Scienze umane e sociali[13] Questo Manifesto stilato durante THATcamp Parigi (The Humanities and Technology Camp, 2010) fu ridiscusso un anno dopo durante THATcamp Firenze (2011),[14] quando umanisti digitali italiani e francesi si confrontarono in un processo di internazionalizzazione della disciplina[15].

Comunque si pensi, riflettere sull’impatto transdisciplinare delle nuove pratiche che costituiscono le fondamenta della transdisciplina chiamata Umanistica Digitale (Digital Humanities) con le tradizioni epistemologiche e filologiche della storia è così diventato essenziale. E di fatti, la "cultura storica digitale" è parte di una più vasta "cultura digitale" che permea la nostra società attraverso la rete internet e sotto varie forme comunicative. Il concetto sociologico di cultura digitale proviene dall’opera di Manuel Castells[16] e anche dai lavori di Willard McCarty all’UCL[17] mentre in Italia, Tito Orlandi,[18] ha teorizzato addirittura la nascita di una neonata koinè, con un nuovo statuto disciplinare basato sull'elaborazione metodologica e scientifica del precedente concetto  d’informatica umanistica che incontra la rete internet e la comunicazione via web.[19]

Vanno così valorizzate le peculiarità disciplinari dello storico digitale: la ricerca di fonti differenti e le diverse trame narrative del web. Se è vero che l’umanistica digitale offre metodologie e pratiche comuni alle scienze che compongono l’area umanistica,[20] è vero anche che queste pratiche e questi concetti sono forse maggiormente elaborati a livello di singole discipline.[21]  Questo avviene riguardo alle diverse tradizioni scientifiche che ritrovano poi nella “république du virtuel”, un universalismo che supera le divisioni tra scienze umanistiche per forgiare nuove pratiche transdisciplinari e strumenti e linguaggi usati in tutte le discipline umanistiche. (Per esempio si usano protocolli aperti e compatibili nei siti della rete come gli standards di marcatura dei documenti,[22] i meta-dati descrittivi come il Dublin Core Project,[23] o i programmi e prodotti open sources[24] come Zotero[25] che favoriscono progetti collaborativi. Le banche dati, le biblioteche digitali e gli open archives sono ora compatibili tra di loro[26] attraverso un’interoperabilità dei loro dati, i cosiddetti linked open data dell’OAI-PMH (Open Archives Initiative Protocol for Metadata Harvesting o, in italiano il “Protocollo per il raccoglimento dei metadati dell'Open Archive Initiative”). [27])
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Quasi tutte le problematiche tradizionali del mestiere di storico, dalla delimitazione di un’ipotesi di ricerca alla scoperta, all’accesso e alla gestione dei documenti e delle fonti, fino al conseguimento di un impianto narrativo e, soprattutto, alla comunicazione della storia e dei risultati della ricerca, e, infine all’insegnamento della storia, passano oramai in parte o in toto, attraverso lo schermo del computer: queste pratiche si annidano all’interno della ragnatela. La storia digitale si potrebbe così definire come “tutto il complesso universo di produzioni e scambi sociali aventi come oggetto la conoscenza storica, trasferito e/o direttamente generato e sperimentato in ambienti digitali (ricerca, organizzazione, relazioni, diffusione, uso pubblico e privato, fonti, libri, didattica, performance e via dicendo).”[28]
Invece, se si pensa al calcolo statistico, alla geo-localizzazione, alla gestione dei big data, enorme quantità di dati/fonti digitali disponibili come fonti che permettono pratiche trasversali di text-mining al loro interno,[29] -Peter Haber parlava addiritura di processo di “datificazione”-,[30] ai programmi che interrogano le immagini direttamente sui loro pixel, etc., la storia digitale, all’interno della transdiciplina dei digital humanities, non è soltanto fatta dell’utilizzo di nuovi strumenti digitali che facilitano vecchie pratiche. Si tratta anche dello sviluppo di un rapporto stretto con le tecnologie suscettibili di modificare i parametri stessi della ricerca. Lo storico è in grado di porre nuove questioni epistemologiche nell’analisi del passato dopo l’avvento del digitale. Tuttavia, solo una minoranza di storici digitali domina gli strumenti che rispondono a nuovi interrogativi scientifici. Meno ancora essi creano programmi originali che permettono nuove analisi e nuove forme d’interazione con le fonti e il loro trattamento in funzione d’ipotesi di ricerca facilitate dall’analisi computazionale.[31]
Lo storico oggi in Italia come altrove, [32] è storico con il digitale, molto meno storico digitale o umanista digitale,[33] ma è la storia stessa (fonti e storiografia) e la memoria del passato che sono, de facto, diventate digitali a prescindere di come gli storici individualmente e/o come gruppo professionale organizzato, si rapportino oggi al digital turn, ai digital humanities e alla storia digitale. La connivenza virtuosa con le tecnologie nonostante l’assenza di un quadro disciplinare istituzionalizzato per le Digital Humanities come in Inghilterra per esempio,[34] ha avuto delle ricadute diffuse e positive sul mestiere di storico nel suo insieme anche in Italia.[35] E’ certamente la comunicazione pubblica e una diffusa presenza del passato e delle memorie di ognuno in rete per le quali manca spesso la coscienza storica, che questionano il ruolo dello storico di professione nei confronti del mondo digitale.

[1] FREDERIC CLAVERT, e SERGE NOIRET (a cura di): L’histoire contemporaine à l’ère numérique - Contemporary History in the Digital Age, Bruxelles, Peter Lang, 2013.
[2] FRANCOIS HARTOG: Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Seuil, Paris, 2012; Pierre Nora intervistato sul significato dei “lieux de mémoire” ribadiva la necessità per gli storici di dare un senso e una vita nel presente alle trace della memoria collettiva della nazione. (PIERRE NORA: Historien Public., Paris, Gallimard, 2011, pp.446-47.)
[3] PHILIPPE JOUTARD: Révolution numérique et rapport au passé, in PIERRE NORA (a cura di) La culture du passé, in «Le Débat», n.177, 2013/5, novembre-dicembre 2013, pp.145-52.
[4] SERGE NOIRET : La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous, in Pierre Mounier (a cura di) : Read/Write Book 2. Une introduction aux humanités numériques, Marseille, OpenEdition Press, 2012, p. 151-177, URL: [http://press.openedition.org/258].
[5] ROLANDO MINUTI: Internet et le métier d'historien: réflexions sur les incertitudes d'une mutation. Paris, PUF, 2002.
[6] DANIEL .J. COHEN e ROY ROSENZWEIG: Digital history: a guide to gathering, preserving, and presenting the past on the Web., Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2005; vedere inoltre degli stessi autori, Clio Wired. The future of the past in the digital age., New York, Columbia University Press, 2011.
[7] ANACLET PONS: El desorden digital: guía para historiadores y humanistas., Siglo XXI de España, Madrid, 2013.
[8]. J.L BORGES, La Biblioteca de Babel in ”Ficciones“Alianza, Madrid, 1971, pp.89-100. Sull’incapacità di trovare una risposta nella “babele” dell’informazione, oggi nel web, il tema affrontato da Borges nel 1941, vedere il saggio di C. ROLLASON,: “Borges’ “Library of Babel” and the Internet", in IJOWLAC - Indian Journal of World Literature and Culture, 1/1, Gennaio-Giugno 2004, pp.117-120, ripubblicato qui: URL: [http://www.themodernword.com/borges/borges_papers_rollason2.html].
[9] COHEN e ROSENZWEIG, Digital History, cit., p.3.
[10] Weller distingue tra “those historians who were professionally engaged in digital tools and technologies in their work … and those who did not consider the subject within their remit at all, despite regularly using email, distribution lists, digitized newspapers or images and many other online resources.”, TONI WELLER: History in the Digital Age., London, Routledge, 2012, p.2.
[11] Lo stesso approccio cauto sull’impatto delle nuove tecnologie si ritrova in Italia in alcun recenti riflessioni sul significato della storia digitale. Il gruppo di giovani studiosi che fanno capo alla rivista Diacronie adopera questa visione cauta nel fascicolo a cura di Elisa Grandi, Deborah Paci e Émilien Ruiz: Digital History. La storia nell’era dell’accesso., in “Diacronie. Studi di Storia Contemporanea", 10/2, 2012; la stessa cautela si ritrova in un saggio che introduce il numero speciale della rivista storica BMGN nel Benelux a cura di GERBEN ZAAGSMA: On Digital History., in BMGN - Low Countries Historical Review, Vol. 128/4, dicembre 2013.
[12] J. RUTNER e R. C. SCHONFELD,: Supporting the Changing Research Practices of Historians: Final Report from ITHAKA S+R, December 10, 2012.
[13] Il Manifesto dei Digital Humanities elaborato da Marin Dacos e da chi assistette nel 2010 al THATcamp Parigi, fu presentato e approvato anche al primo THATcamp italiano, THATCamp Firenze all’Istituto Universitario Europeo, dal mondo dell’umanistica digitale italiana. Le proposte del manifesto sono volutamente generiche per identificare un momento di passaggio e di cambiamento e non legare il contenuto del manifesto ad una sola cultura, un solo paese o a pochi gruppi di innovatori. Si veda di M. DACOS: Manifesto delle Digital Humanities, 26 marzo 2011, pubblicato in italiano dopo THATCamp Florence, nel marzo 2011, URL: [http://www.thatcampflorence.it].
[15] L’AUICD italiana (Associazione per l'Informatica Umanistica e la Cultura Digitale) aderisce all’EADH, (European Association for Digital Humanities), URL: [http://eadh.org], una delle componenti dell’ADHO (Alliance of Digital Humanities Organizations), URL: [http://www.digitalhumanities.org/], che raggruppa le associazioni internazionali di Umanistica Digitale; per motivi di diversificazione linguistica e culturale, è stato fondato durante il THATCamp Saint-Malo in Francia nel 2013, un associazione francofona di umanistica digitale, Humanistica con sede in Canada (URL: http://www.humanisti.ca). Il campo è oggi in piena espansione organizzativa ed associativa a livello mondiale.
[16] Sui mutamenti profondi, culturali, sociali ed economici, in corso nella nostra società dopo l’avvento di internet, si veda di MANUEL CASTELLS: La nascita della società in rete, Milano, EGEA-Università Bocconi, 2002 e dello stesso autore: The Internet galaxy: reflections on the Internet, business, and society., New York, Oxford University Press, 2001.
[17] WILLARD  MCCARTY: Humanities computing., Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005.
[18] TITO ORLANDI: Informatica Umanistica., Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990. Per una bibliografia degli scritti di Orlandi rimando alla sua pagina web personale: Pubblicazioni relative all'Informatica umanistica, oltre che alla bibliografia contenuta in LORENZO PERILLI e DOMENICO FIORMONTE (a cura di), La Macchina del Tempo. Studi di informatica umanistica in onore di Tito Orlandi, Firenze,. Le Lettere, 2011.
[19] La nuova disciplina sarebbe da inserire nell’Area 10: Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, e nell’Area 11: Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche. (GINO RONCAGLIA,: Informatica umanistica: le ragioni di una disciplina). Si veda anche il manifesto Proposta di costituzione del settore scientifico-disciplinare: Informatica applicata alle discipline umanistiche (ovvero: Informatica umanistica), e a mia conoscenza il primo manuale italiano per la didattica dell’Informatica Umanistica che ne anticipava già le concezioni, TERESA NUMERICO, e ARTURO VESPIGNANI, (a cura di): Informatica per le scienze umanistiche., Bologna, Il Mulino, 2003.
[20] Il primo manuale (2004) accessibile dal 2007 gratuitamente in linea è di SUSAN SCHREIBMAN, RAY SIEMENS, JOHN UNSWORTH (a cura di) A Companion to Digital Humanities, Oxford, Blackwell, 2004. CLARE WARWICK: Digital Humanities in Practice., London, Facet Publishing, 2012; M.K. GOLD: Debates in the digital humanities., Minneapolis, University of Minnesota Press, 2012; MELISSA TERRAS, JULIANNE NYHAN, e EDWARD VANHOUTTE: Defining Digital Humanities: A Reader., London, Ashgate, 2013; sulle pratiche degli storici dopo il “digital turn”, rimando anche a SERGE NOIRET: “Storia Digitale: sulle risorse di rete per gli storici.”, in La Macchina del Tempo. Studi di informatica umanistica in onore di Tito Orlandi, cit., pp.201-25.
[21] PHILIPPE RYGIEL: L’inchiesta storica in epoca digitale, in Memoria e Ricerca, n.35, 2010, p.163-.
[22] Text Encoding Initiative (TEI)  URL: [http://www.tei-c.org/index.xml].
[23] Dublin Core Metadata Initiative (DCMI), URL: [http://dublincore.org/].
[24] Open Source Initiative (OSI) è un progetto per rendere accessibile la codifica dei programmi e banche dati a tutti, URL: [http://www.opensource.org/].
[25] Zotero, URL: [http://www.zotero.org].
[26] Open Archives Initiative (OAI), URI: [http://www.openarchives.org/].
[27] Open Archives Initiative. Protocol for Metadata Harvesting, URL: [http://www.openarchives.org/pmh/].
[28] GIANCARLO MONINA: Storia digitale. Il dibattito storiografico in Italia, in Memoria e Ricerca, n.43/2, pp.185-202, qui, p.185.
[29] VIKTOR MAYER-SCHÖNBERGER, e KENNETH CUKIER: Big Data: a Revolution That Will Transform How We Live, Work, and Think. Boston, Houghton Mifflin Harcourt, 2013. Vedere inoltre di DANAH BOYD e KATE CRAWFORD, Critical Questions for Big Data, in “Information, Communication & Society”15/5, 2012, pp.662‑679 e, di KATE CRAWFORD: Think Again: Big Data. Why the rise of machines isn't all it's cracked up to be, in “Foreign Policy”, 10 Maggio 2013. Infine, per un esempio dell’uso della dataficazione a storia vedere JORIS VAN EIJNATTEN, TOINE PETERS e JAAP VERHEUL: Big Data for Global History: The Transformative Promise of Digital Humanities., in BMGN - Low Countries Historical Review, n.128/4, 2013, pp.55-77.
[30] Il concetto di “data driven history” è quello che ha usato il compianto PETER HABER per definire il mondo nuovo della storia digitale, nel suo Digital past: Geschichtswissenschaft im digitalen Zeitalter, München, Oldenbourg Verlag, 2011.
[31] DANIEL J. COHEN, MAX FRISCH, P.GALLAGHER, STEVEN. MINTZ, KIRSTEN SWORD, A.MURRELL TAYLOR, WILLIAM G. THOMAS III, e WILLIAM J TURKEL.: Interchange: The Promise of Digital History, in The Journal of American History, 2, 2008, pp.452-91.
[32] Anche se per loro, la rivoluzione digitale passa da una nuova conoscenza transdisciplinare e dalla collaborazione tra diverse scienze; vedere di STEPHANE LAMASSÉ, e PHILIPPE RYGIEL, Nouvelles frontières de l’historien , in «Revue Sciences/Lettres», n.2, 2014, DOI: 10.4000/rsl.411.
[33] E’ quello che rileva Claudia Favero nella sua inchiesta per sapere “What does it mean to be a digital historian in Italy and in the UK?” basata purtroppo su un numero molto circoscritto d’interviste qualificate in entrambi I paesi. L’autrice delimita nella sua analisi, problemi e contradizioni degli storici che s’interrogano sul loro lavoro con il digitale o che fanno storia digitale, in CLAUDIA FAVERO: Digital Historians in Italy and the United Kingdom: Perspectives and Approaches., in CLARE MILLS, MICHAEL PIDD e ESTHER WARD: Proceedings of the Digital Humanities Congress 2012Studies in the Digital Humanities., Sheffield, HRI Online Publications, 2014.
[34] Defining digital humanities: a reader., cit.. Una critica dell’uniformità culturale dei digital humanities, una definizione alternative e una descrizione degli ambiti disciplinari in Europa e altrove sono forniti da MARIN DACOS e PIERRE MOUNIER: Humanités numériques – État des lieux et positionnement de la recherche française dans le contexte international., Marseilles, OpenEdittion/Institut Français, 2014, pp.29-36.
[35] Malgrado ciò, la valutazione scientifica in positivo dell’Umanistica Digitale che include anche il lavoro degli storici con il digitale, è tuttora penalizzata nei suoi aspetti transdiciplinari dall’accademia italiana. L’Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale (AUICD) ha denunciato sul sito ROARS, “le gravi circostanze emerse con la pubblicazione dei risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, che rischiano di compromettere in modo serio e preoccupante il futuro della formazione e della ricerca in un settore, quello dell’informatica umanistica e delle digital humanities, concordemente giudicato di importanza strategica per l’innovazione tecnologica e per la conservazione del patrimonio culturale”. (Osservazioni critiche dell’AIUCD sull’ASN).

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